Una giornata di festività. All’ora del caffè dopo il pranzo. Una “riunione” tra amici e relative famiglie.
Stavamo piacevolmente chiacchierando. Ci aggiornavamo su quanto fosse successo negli ultimi mesi in cui non avevamo avuto modo di incontrarci. I nostri figli – adolescenti – cercavano di trovare un punto di contatto, ma senza forzature, con la massima serenità tipica di un pomeriggio di relax.
Sorridevo guardandomi attorno. Sentivo di essere forte. La patologia di Lara ci mette spesso difronte situazioni da cui impariamo, cresciamo, ci fortifichiamo anche se le “situazioni” a cui accennavo sono batoste. Ma non pensavo che l’ennesima batosta sarebbe arrivata di lì a poco sotto altra forma. Sotto forma di piena consapevolezza.
Una amica, cercando di farmi sentire la sua vicinanza, comprensibile e lodabile, mi dice che segue una serie televisiva di un ospedale italiano in cui raccontano le storie di vita di alcuni pazienti i cui protagonisti sono i veri pazienti e le famiglie. Storie in cui si racconta il problema, la presa in carico da parte dell’ospedale, le emozioni, le paure che si vivono, l’intervento o gli interventi, il post-operatorio e il superamento del problema. Ho capito il suo sforzo di creare un contatto con me e con tutto ciò che vivo insieme a Lara (anche se in quel pomeriggio non si era minimamente accennato all’argomento) e ho risposto raccontandole che anche noi eravamo stati convocati per una valutazione del caso per poter registrare un episodio proprio di quella stessa serie, ma poi il caso di Lara non è stato selezionato.
La sua considerazione: “Certo perché le malattie degli altri bambini sono molto più gravi”.
La mia risposta: “No, perché per la POIC non esiste una cura”.
A voi le riflessioni.